Critiche

Licio Damiani

Visionarie apoteosi

L’elegia della luna

“Le stelle intorno alla bella luna / nascondono di nuovo la loro figura luminosa / quand’essa risplende / su tutta la terra”: pare visualizzare il frammento lirico di Saffo l’incisione ad acquaforte- acquatinta-cera molle Brivido sacro di Riccardo Giovanni Patriarca. Ma sono anche di altri autori i frammenti poetici che essa evoca: il “drappo indaco di cielo” che “come pavone si fa alla vista”, dell’arabo Daqiqi; l’”arco sottile lucente che aspira a salire”, di un anonimo poeta della dinastia T’ang; il “mio volto di luna, mio viso di fata”, del turco Nesimi. E con un altro lirico ottomano, Baqi, vien da esclamare “L’amore per quella luna domina l’universo”.

La calcografia su lastra di zinco pare un arazzo di seta blu irradiato da una luminosità interna, trapunto da una sottile, argentea, falce di luna e da alcune scaglie di stelle. Sul lato basso si disegna in ombra, sotto una luminescenza lattea, la striscia di campagna percorsa da reticoli di solchi e da una processione di gelsi spogliati dall’inverno. L’opera, capofila di altri cieli di blu notturni profondi come fondali marini, emana una sospensione magica, una suggestione fiabesca di orienti sognati, di scenari da Mille e una notte che sembrano accogliere canti struggenti di carovanieri e di pastori erranti nel deserto leopardiano. “Cha fai, tu luna in ciel, dimmi, che fai, / silenziosa luna?”

E in Madre Luna si inserisce, entro una sorta di cornice colorata, un tratto di fiume chiuso dalla sponda boscosa, nelle cui acque si riflette la fascia verde-blu del chiarore del satellite campeggiante in alto in forma di cerchio irregolare. Il lato superiore dell’immagine tagliato ad arco  conferisce all’immagine un tono di romantica rappresentazione ottocentesca. L’opera si ispira alla poesia di Pierluigi Cappello Buonanotte: “Ti scrivo che lassù la luna brilla / perché brilla la luna madreperla / madreluna che sta come una spilla / nell’asola corvina della notte…”. Ma risuonano come un’eco anche i versi di un altro anonimo poeta cinese sempre della dinastia T’ang: “Questa notte la gran luna autunnale / sembra ancora rotonda…Il fulgore dardeggia, si nasconde / serpente irrequieto; / la luce ora svolazza, ora si posa, / instancabile uccello… /  e il chiarore che fende ora di nuovo / la rugiadosa immensità fiorita”.

Nell’acquatinta Verso la luce la testa sfolgorante, dilatata nella scia rosea, della cometa Hale-Bopp, che all’inizio della primavera 1997 fu seguita da enorme emozione, spicca sull’immensità blu–nera trapunto dai minutissimi punti dell’”esercito stellare sparso per tutto il cielo”: straordinaria apparizione, come di un angelo astronomico. C’è mistero, c’è una sorta di iniziatico respiro poetico in queste opere.”Il Cielo è il luogo della libertà celeste – ha scritto l’artista – nel quale fantasticare, immaginare e provare sentimenti ancora sconosciuti; dove poter scoprire corrispondenze che sulla Terra non si possono trovare, perché il mondo si è inaridito di sentimento e di umanità profonda. Io dipingo per rappresentare immagini dell’Immensità che mi sovrasta. Stupisco e ricerco perpetuamente l’orizzonte che fugge e fugge di meraviglia in meraviglia”.

Paesaggi silenziosi e deserti

La grafica è il capitolo principe nella più recente produzione di Patriarca. Le prime acqueforti, di alcuni anni fa, avevano un’impostazione rigorosamente realista – ma di un realismo “metafisico“ – la cui massima precisione arrivava in diverse opere a effetti di sospensione straniante. Il segno nitido, preciso, slontannava l’immagine in un tempo indefinito, fuori dalla storia. Paesaggi  “silenziosi e deserti – ha osservato Gabriella Bucco – dove la presenza dell’uomo è colta attraverso le architetture, immerse, sempre, nel rigoglio della natura”. A dire il vero, a chi scrive la presenza umana pare completamente assente e le architetture si trasfigurano in crezioni di un artificio stregato, nei quali la natura si materializza in forme “eterne”, in surreali apparizioni. L’uso di più lastre matrici arricchisce l’immagine di lievi sfumature cromatiche ramate o verde muffa, brune, azzurre o dorate.  Un esempio di onirica trascrizione iperrrealista è la Chiesetta della Madonna della neve a Titiano di Precenicco. Le polite strutture cubiche del piccolo edificio costruito sulla riva dello Stella, campite sull’uniformità astratta del cielo, si specchiano limpide – creando un doppio illusonistico – nelle acque del fiume, insieme ai cipressi scuri che le attorniano fantasmaticamente e ai rami di alberi e cespugli spogliati dall’inverno; il verde livido dell’opera ne accentua l’aura di trasognata alienazione.

Alcune vedute frontali in versione “cinemascope” di Villa Manin di Passariano, sospese in una solarità deserta intrisa di meraviglia e d’inquietudine, ricordano quasi alla lettera le grafiche sul medesimo soggetto di Mario Micossi.  In una successiva versione i particolari descrittivi vengono eliminati dall’impostazione geometrico-astrattizzante e dietro il complesso della Villa si dispiega una sorta di paravento di rettangoli uniti fra loro a fisarmonica. L’immagine si allarga nel “grand’angolare” virato in color ruggine. In un altro foglio la dimora dell’ultimo doge di Venezia è inquadrata dalle due torri che segnano l’ingresso all’esedra con la cintura di barchesse e il biancore dell’articolato complesso edilizio spicca irrealisticamente sul colore lievemente rosato del cielo.

Piuttosto nutrito il capitolo dei castelli. La Veduta del castello di Colloredo di Montalbano spazia dallo sviluppo frontale dell’intero maniero, con le casette del borgo in basso, fino alla chiesa sormontata dal campanile chiaro terminante nell’angelo plasmato sul modello di quello del castello di Udine. In una tiratura il Castello di Cassacco rosso-tramonto si erge sulle campagne fiancheggiato da lance di cipressi grigi, in un’altra versione appare ammantato di foschie verdi- muschiose. Il Castello di Villalta è sfiorato da velature rossicce. Sul fronte del Castello di Prampero, nell’incisione realizzata prima della distruzione provocata dal terremoto del 1976,  si modella l’armoniosa loggetta rinascimentale.

Il capoluogo friulano è altra “città del sogno”. Le diverse versioni dell’udinese Piazza Libertà trasformano le architetture della gotica Loggia del Lionello e della cintura di casette antiche detro alle quali si leva il campanile del Duomo, insieme a statue, colonne votive, colonne onorarie, balaustre, fontana di Carlo da Carona, in salde costruzioni metafisiche alla De Chirico scandite da tersi tagli di luce abbagliante e da ombre rosee o ramate, sostituendo all’ironico distacco dechirichiano inquietanti impeti di romantica passionalità. L’Angelo del Castello danza su nubi di fuoco. La rigida scenografia della Chiesa di Sant’Antonio Abate biancheggia tra rossi barbagli. Il frontone di Palazzo Belgrado, col primo piano della roggia che cinge i giardini Ricasoli, affiora dietro a un velario di foschie.

La panoramica su Cividale è movimentata dal Ponte del Diavolo e dai palazzetti sul Natisone, dalla vegetazione  che infittisce sulle vertiginose sponde del fiume che scorre con le sue acque celesti, dalla facciata e dal campanile del Duomo, delineati sugli ammassi di nuvolaglie crespate. E fra carrellate su borghi e paesi allungati orizzontalmente tra boschi dai colori autunali, muri merlati, declivi di strade, spicca il pastello Ave Maria in laguna-Isola di Barbana, azzurro arazzo nel quale s’intravede lo slancio del campanile del santuario circondato da matasse di cespugli bruni e viola. La veneziana Isola di San Giorgio si trasfigura in morganatico miraggio. Al romano Castel Sant’Angelo color terracotta, specchiato nel flusso blu del Tevere, si arpiona il biancore di Ponte Garibaldi coronato di statue angeliche; sfilano lontani in controluce cipressi e pini marittimi. “Roma – si confida Patriarca, mostrando un’acquaforte raffigurante archi e colonne dei Fori – è una delle città che maggiormente amo”.

Virgiliano lirismo

Gli effluvi della classicità latina sembrano intridere le sequenze imperniate sulla natura. Respira del lirismo virgiliano l’acquaforte-acquatinta-cera molle Riflessi dal Giardino dell’Eden, con i raggi di luce che trafiggono il verde del bosco specchiato nell’acqua di un’ansa di fiume. Parrebbe quasi risuonare nell’opera l’eco di alcuni esametri dell’Egloga prima delle Bucoliche: “…hic inter flumina nota / et fontis sacros frigus captabis opacum. / Hinc tibi quae semper vicino ab limite saepes / hyblacis apibus florem depasta salicti / saepe levi somnum suadebit inire sussurro – Qui tra le natie acque correnti, / tu godrai ogni giorno l’umida ombra, / Qua la tua siepe vicina al confine / – dalla quale le api succhiano il fiore dei salici / t’inviterà come sempre col suo basso bisbiglio a scivolare nel sonno”.

Una fascia luminosa di riflettore naturale, che piove dal “gregge” sparso di nuvole azzurre e rosa alitanti sul bagliore dorato dell’orizzonte, attraversa la coppia di cipressi levati su una distesa campestre scandita da alberelli invernali nell’incisione il cui titolo è tratto dall’unico frammento salvato dell’Elegia II  di Leopardi: O care nubi, o cielo, o terra, o piante. E su altri versi del lacerto il pittore sembra malinconicamente sintonizzarsi: “Io qui vagando al limitare intorno / invan la pioggia invoco e la tempesta…S’apre il ciel, cade il soffio, in ogni canto / posan, l’erbe e le frondi e m’abbarbaglia / le luci il crudo Sol pregne di pianto”.

Forti emozioni “di un sogno rivissuto” provoca nell’artista lo Stella. “La bellezza coinvolgente, effimera e sfuggente di questo fiume di risorgiva – egli ha scritto nell’autopresentazione della personale di Palazzolo dello Stella dedicata nell’autunno 2012 al tema – mi ha trattenuto a dipingere le acque specchianti delle sue anse morte e delle sue golene. Dopo alcuni anni mi sono ritrovato ad essere un pittore rinnovato, più flessibile, più estroverso, più libero…Ho ricominciato a usare i colori  olio”, con quali il segno grafico sfuma in evanescenze cromatiche. Ecco allora i bagliori gialli e verdi lievitanti magmaticamente sulle sponde nell’olio Ponte sulla ferrovia. Si mantengono invece fedeli alle tecniche incisorie Riflessi sullo Stella e Alle  foci dello Stella. Il primo foglio riprende i motivi della Scuola di Barbizon – il villaggio francese a pochi chilometri da Parigi, frequentato dai pittori per la varietà dei luoghi – scuola impostasi intorno al 1830 con quadri che avvolgono il visitatore per l’imponenza delle masse arboree, i movimentati effetti di luce, gli intrichi di foreste, gli specchi d’acqua, i torrenti: una visione romantica della natura osservata realisticamente nelle sue cangianti vibrazioni. In particolare i  toni ramati ricordano alla lontana  lo Stagno nel bosco (1850-1854)  di Théodore Rousseau, fondatore del movimento.  La seconda opera, con la visione del corso d’acqua fiancheggiato dai canneti e la grande rete da pesca appesa tra le due rive, nel punto focale della visione prospettica, ha invece una visualità analiticamente descrittiva.

Ne L’ultima foglia  fusti di gelsi scorciati dal basso in alto secondo una slontanante prospettiva di taglio cinematografico  dissolvono il serpeggiare dei rami spogli sulla lastra avana del cielo. In Tramonto del passato pugni neri di gelsi dissolti, stagliatie sul cielo di fuoco, si trasfigurano in un corteo shakespeariano di ombre.

Il perfetto semicerchio di Arcobaleno, che inquadra sul lato basso le minuscole case di un borgo, par citare le immagini dello sfarzoso film in techicolor d’antan di Victor Fleming Il mago di Oz.  La Chiesetta alpina della Valcanale è intessuta come un abito di sposa da candide fioriture di ciliegi. Il cancello serrato, forse di una villa settecentesca, affondato tra gli alberi scuri  nell’acquaforte- acquatinta-cera molle Ospitale introduce all’infinito .In Tagliamento le anse del fiume serpeggiano bianche ai piedi di una cerchia di monti spettrali.

Le montagne sono altre protagoniste delle incisioni di Patriarca. L’artista – ha osservato Gabriella Bucco – “è partito da incisioni nette e definite nei particolari che, nei tardi anni Ottanta, suggeriscono una grazia quasi giapponese, poi con il passare del tempo, il disegno netto ha lasciato spazio alle macchie di colore dell’acquatnta, agli interventi a cera molle che rendono la meraviglia indefinita della natura. Dalla realtà rappresentata giunge a raffigurare il sentimento che essa genera nel suo spirito”, proponendo sauggestioni e corrspondenze emozionali.

Hanno l’asprezza e la grandiosità epica del fondale di un’inquadratura western i pinnacoli dolomitici di Sella Scodovacca al mattino intrisi di abbaglianti luci di rame e d’oro. Il Cridola con le sue forme a canne d’organo compone una poesia “che fa pensare a Dio”, diventa per l’artista un “elemento di preghiera”. In Montasio:  tramonto la vetta del massiccio roccioso si leva nel sole sulle pendici in ombra come un’informale scultura in purissimo gesso. La vena creativa di Patriarca si arricchisce inoltre di “istantanee” delle Alpi Giulie a Coccau, Valbruna, Chiusaforte.

Storie di nuvole e di gabbiani

A contenuti cosmico-spirituali – a giudizio dello scrittore Paolo Maurensig – si affacciano le “strofe” del poema composto di acquerelli, oli, pastelli, dedicato alle Nuvole. Gli acquerelli, gli oli, i pastelli esprimono “leggerezza su leggerezza” che è – racconta Patriarca – “il mio modo di essere….Così mi sento ancora memoria di nuvola, di mare o di gabbiano nel vento. Stendo i pastelli sulla carta accarezzando i colori che diventano immagini: è come tornare dall’immenso Cosmo per dare percezione alla felicità dell’Infinito”

 “Spesso parlo con le nuvole – aggiunge l’artista –  e loro mi capiscono e mi rispondono. Mutevoli e fantasiose comunicano i fatti de giorno sul mondo. Quando infuria il temporale il rombo fragoroso e vibrante del tuono mi scuote l’anima (un attimo prima l’accecante saetta mi ha sospeso il respiro). E’ la grandezza della Natura che si esibisce tutta per me.  Mi sento felice come per un grande privilegio. Ma più misteriosamente beato per la gratitudine che provo verso quell’Artista Divino che mi affanno a copiare, cercando di carpire le sue forme e i suoi colori. Le mie opere, alla fine di ogni considerazione, sono deglistati d’animo, ispirati allo spettacolo dell’Universo che mi stupisce e mi avvince”.

Nubi sfatte come aerei fiocchi di cotone, nubi incandescenti, girotondi di nubi. Fulmini sprizzano verticalmente tra le nubi come rami di fuoco. Nubi cremose vagano nell’azzurro folgorate dal lampeggiare accecante del sole che declina in E poi…venne il crepuscolo. Nubi come masse erratiche sorvolano la bassa pianura friulana solcata da intrecci filiformi di strade in Piancada in volo. Veleggiano leggere, sfiorate di giallo, celeste, violetto, sui dolci avvallamenti della campagna aperta come in un’offerta colma d’erotismo in Abbraccio di nubi. Dardeggiano luci aggrumate in un magma temporalesco sulla laguna verdastro-paglierina in Riflessi paglierini. Sfiorano le cime scure degli abeti in Nubi basse. Si arrotano e si sfilacciano turbinose nei passaggi dal nero all’azzurro scuro al giallo sfolgorante in Al tramonto. Vagano frantumate e dissolte in un cielo di porcellana tersa in Duetto all’alba. Compongono straordinarie sinfonie visive nell’accavallarsi ovattato o ruggente del dittico “Quand’ero bambino…”, in cui affiorano impressioni di lontani incantamenti infantili. In L’acqua e la luce esplodono sui fremiti del mare resi scintillante da una colonna di sole.

Nelle incisioni Verso l’est nubi si arruffano opulente e dorate sui lievissimi solchi tracciati  dal vento nelle sabbie dei litorali, lasciando immaginare deserti sahariani presaghi d’avventure. Singolari, minacciosi toni violetti assumono le Espansioni di nuvole. Le Nuvole sognate, radiose d’argento, che s’inarcano sopra una verde striscia di laguna, visualizzano un’altra poesia di Pier Luigi Cappello: “(Non sono solo nuvole le nvuole / che nuvola più nuvola più nuvola / fanno disfanno nel cielo figure / di maghi di draghi o serpi o sirene / ma sillaba più sillaba con cura / syaccano voci musiche serene / queste che tra parentesi ho posate / sulla prora di nuvole d’estate)”. Nell’Assoluto all’Alba assumono sonante potenza. E In luce…dopo  la corona plumbea di nubi si sfalda e si liquefà lasciando irrompere, come in una visione biblica, la luce del Divino.

Le nubi si trasfigurano in uccelli marini nella silloge dedicata ai Gabbiani. Voli di gabbiani come nastri. Alitano volteggiano fluttano diafani dispiegando innocenze di angeli pagani. Abolito ogni inquadramento prospettico, semplificata la struttura compositiva ormai  priva di peso,  tradotta in lineari ritmi musicali,  l’artista affida ai palpiti di “ali dell’anima” librate in uno spazio senza limiti il proprio “lungo sogno azzurro”.

Incanti dell’eterno femminino

Patriarca è, inoltre, un virtuosistico e ormai raro specialista della tecnica grafica detta della Maniera Nera – conosciuta anche come Incisione a fumo – imperniata esclusivamente sull’azione diretta della mano dell’artista, senza uso di acidi. Inventata nel 1642 dal fiammingo Ludwig von Siegen, venne magistralmente impiegata da Rembrandt. e, nel Settecento, da artisti italkiani, olandesi e, soprattutto, inglesi. Richiede, inizialmente, la granitura d’una lastra di metallo mediante un utensile seghettato. Sulla lastra, inchiostrata uniformemente di nero, l’artista incide il disegno “cavando”  le parti bianche per ottenere i riflessi e i violenti lampi di luce. La maniera nera oggi è stata quasi abbandonata in Occidente, mentre è molto utilizzata in Giappone. Consente una straordinaria finezza di modellato, la resa di morbidi piani tonali ed è impiegata per le vedute notturne, le figure umane, i ritratti, le nature morte con frutta e fiori.

Sono proprio il modellato morbido, il plasticismo pastoso, insinuante, vellutato, diafano, a plasmare i Nudi di bellissime donne, apparizioni incantatrici che emergono, dal “mistero nero”. Corpi chiaroscurati di sirene si flettono con sensualità conturbante, abbracci drammatici di corpi emergono dall’oscurità colmi di delizie erotiche, nudi aerei vengono fasciati dai drappeggi di brividi luminosi. Nel Nudo dalla testa dissolta nell’oscurità quattro mani cingono sotto i seni rigonfi la figura, tagliata all’altezza dell’inguine. Nudi si dissolvono in forme raggiate di barbagli. E come carnali parte anatomiche si disegnano le nature morte di frutta, di fiori, d’insetti e di molluschi (Ri-morso di Eva, Cale, lumache e farfalle in Mimesis).

Donne ignude si ripopongono nei pastelli e negli oli. Due fanciulle sedute vengono marezzate da riflessi filtrati da immaginarie tapparelle in un “meriggiare pallido, assorto”. Tre donne-enigmi appoggiate a una finestra dispiegano un lenzuolo per tentar di coprire le forme opulente, come in un quadro del surrealista francese Paul Delvaux, intriso di sureale profumo fuori dal tempo. Il profilo di una ragazza ignuda, con gli occhi bendati, offre bolle di sapone a una corazza vuota – pallido riferimento, forse, al Cavaliere inesistente di Italo Calvino – galleggiante su un pavimento prospettico

Figure nella nebbia

Negli oli le figure affondano nella nebbia o dalla nebbia emergono. E’ una nebbia azzurrina che svapora l’immagine e dalla quale si emanano un silenzio ovattato, un‘immobilità onirica, uno stupore trasognato. Nell’estensione cilestrina che si effonde dal quadro – avevo osservato in una notta critica stesa molti anni fa – ogni oggetto, o forma, o parvenza si riducono a un trasalimento fievole di colore, esistono soltanto “per il loro riflettersi sul sentimento del pittore”. Ed ecco, nei Dubbi di Riccardo, un bimbo bifronte come un Giano infantile, e nel Perseo teste sfuocate di giovani vocianti con le bocche arricciate di pesci e gli occhiali subacquei affondano nelle profondità marine e si riproducobno nelle due figure di giovani dissolti con le braccia tese in Prometeo. Ragazzi in tute blu ballano tra le nubi  sulle noto di un antico grammofono a tromba

Nell’olio Alle porte del Tartaro il particolare di un maschio urlante con le braccia allargate si sdoppia e un’unica bocca spalancata congiunge i due frammenti contrapposti del volto .Nella Clonazione di Narciso la rotazione di una testa infantile lascia una traccia che la triplica fra un inarcarsi di pugni che paiono tramutarsi in esseri mostruori e il fondo azzurro trascolora in bagliori sfuocati. Rappresenta Sisifo e la morte un giovane accucciato la cui testa si scompone in un doppio lembo. Al collo porta una collana formata da tubicoli simili a frammentik d’intestino; nella lunetta che lo sovrasta si scioglie l’immagine d’un teschio.

Vagano nel blu frammenti di teste e di gambe. Una Leda tratta dalla pittura cinquecentesca, cinta dalle enormi ali del cigno, posa fra i busti di due uomini, uno mascherato,  l’altro con in testa la cupola della Basilica romana di San Pietro, e la Monna Lisa di Leonardo da Vinci è inserita in un congeno meccanico. Un pastore con un maialino in braccio troneggia all’interno di un salone riascimentale fronteggiando due leopardi. Nella Legge di Sparta uno sgherro duplicato si appresta a gettare nella forra, tenendolo per le gambe come un pollo, un bimbo dal duplice volto e in Temendo Chernobyl lo scorcio del braccio di una madre con la testa da palombaro forata da tre finestrini ovalali, dietro ai quali si intravedono occhi affondata nell’ombra blu che irrompe su una tessitura di ocra leggero, stringe in grembo i due figlioletti. Ritorna il tema del doppio in questi apologhi sulle violenze della storia ripetute nei secoli.

Sospese tra il cristallino equilibrio delle magiche stesure pittoriche e l’inquietudine delle ossessioni visive le deformazioni surreali di Patrarca assumono accenti alla Magritte, per il quale – così come per l’artista friulano – le “ricognizioni dell’anima” nella Metafisica dechirichiana si trasformano in Metamorfosi e ”l’immagine delle cose cela in sé tutto e il contrario di tutto”.

L’ignuda di Baudelaire

Si ritorna invece alla pittura tradizionale nella ritrattistica. L’Autoritratto giovanile del 1974 ricorda nel cromatismo acceso la Scuola Romana di Scipione e Mafai. Quello del 1983, con il mantello azzurro, ha un taglio cinquecentesco. Sicuro di sé l’Autoritratto del 1992, incoronato dalla folta capigliatura leonina. Il grafismo insistito, i colori leggeri dell’Autoritratto del 2007, con lo sguardo pensoso e interrogativo, esprimono le inquietudini dell’età matura. Esce potente dall’oscurità busto di None Rose; capelli bianchi, volto chiaro solcato da rughe, colletto di maglia dell’abito dissolto nel nero di fondo, orecchino d’oro, sottolineano l’espressione severa,  autorevole e decisa.

Infine, nel Nudo disteso nella foschia, Patriarca ci riporta all’ambiguità della seduzione femmminile. L’erotismo della figura, misto di sensualità e d’innocenza, par richiamare una delle più affascinanti poesie di Baudelaire:  “Elle était donc couchée et se laissait aimer, / Et du haut du divan elle souriait d’aise / A mon amour profond et doux comme la me, / Qui vers elle montait comme vers sa falaise.  //  Les yeux fixés sur moi, comme una tigre dompté,  / D’un air vague et rêveur elle essayait des poses, / Et la candeur unie à la lubricité / Donnait un charme neuf à ses métamorphoses;  //  Et son bras et sa jambe, et sa cuisse et ses reins, / Polis comme de l’huile, onduleux come un cigne, / Passaient devant mes yeux clairvoyants et sereins; / Et son ventre et ses seins, ces grappes de ma vigne,  //  S’avançaient, plus câlins que les Anges du mal, / Pour troubler le repos où mon âme était mise, / Et pour la déranger du rocher de cristal / Où, calme et solitaire, elle s’était assise. – Era dunque sdraiata, e si lasciava amare; / dall’alto del divano sorrideva beata / al mio amore profondo e dolce come il mare / che intorno a lei spumeggia come intorno a uno scoglio.  //  Mi fissava negli occhi, estatica e sognante / come una tigre buona. Se tentava altre pose, / un misto di lascivia e di candore / alle sue metamorfosi dava un fascino strano.  //  Lisci come l’olio, sinuosi come un cigno, / le sue membra e i suoi fianchi mi passavano / davanti agli occhi attenti e illimpiditi / e, grappoli pendenti alla mia vigna,  //  il suo ventre e il suo seno mi sfioravano / turbando, teneri angeli del male, / la mia anima assopita, facendola sloggiare / dal suo remoto seggio di cristallo”.

Renzo Cortina

Milano, ottobre 1985

Ai confini dell’immaginario

L’opera di Patriarca, pur avendo superato le costrizioni del ricordo e di qualche abitudine espressiva, vive e trasmette una favola naturale, quella di vita fantastica che germina e si ripete, in una continua allusione fra la quale  non manca il segno della violenza e della paura.   La pittura di Patriarca, per quanto si sviluppi in forme apparentemente fantastiche, o per lo meno abbastanza ambigue da pretendere un metodo di interpretazione che tenga conto di una serie di simboli, dimostra una forte volontà di racconto. Non che vi siano, quadro per quadro, veri e propri personaggi (sebbene nulla vieterebbe di definire personaggi certe immagini più precisate, volta a volta portatrici di concetti di violenza, di dolcezza, di paura, di sterilità, di rigoglio) ma certamente vi sono forme e forze positive, forme e forze negative, che opponendosi o incrociandosi o separandosi suggeriscono subito l’idea che in un quadro non c’è solo una serie di immagini più o meno gradevoli, ma piuttosto “qualcosa che avviene” misteriosamente.    Quella presenza umana, che  rifiutata al livello di protagonista, riappare di riflesso, entra un giuoco attraverso un dispiegamento di immagini che alludono prevalentemente a un mondo surreale poiché ciò che accade alla natura accade l’uomo.    Diciamo che Patriarca nel raccontare la favola a volte il dramma del perpetuo, nascere morire e rigenerarsi della forma, racconta anche la storia dell’uomo come elemento della natura, in senso quasi fisiologico.   Ciò che è da sottolineare, ancora, è che la sua ricerca, per tutti i riferimenti sensoriali messi in discussione e trasposti al livello di simbolismo lirico conoscitivo, si discosta assai personalmente dalle tendenze più frequentate della giovane pittura italiana.   La forza del sogno è quindi rilevata, ma il sogno di Patriarca è caratterizzato dalla volontà di costruirlo, non è aspettato alle sorgenti dell’irrazionale.   E’ una partenza dell’intelligenza nella direzione del potere dell’immaginazione che in ogni tempo ha reso l’uomo più libero, più significante nella sua natura di anelito al meraviglioso e al sublime.

Pierluigi Cappello

Aprile 1998

Sotto le montagne riposa il mito, la potenza del mito che le ha smosse e le ha fatte altari e le ha alzate contro il cielo con la forza di costole crocchianti. Le montagne non esistono, stanno così come sono per essere, essere bisognerebbe coniugarlo soltanto all’infinito, perché essere è il verbo delle montagne e l’infinito è il tempo dell’impossibilità; essere è la parola di pietra per la quale non esiste né il prima né il dopo, con la quale si buca la storia, della quale, inaccessibile, si scorge il riflesso della divinità. Che confusione di terre e di cieli è la nostra, Giovanni! Eppure noi oggi parliamo di montagne e le montagne sono metafore e le metafore sono il motore della poesia e la poesia è sangue di umanità che corre dentro tutte le arterie dell’universo. Così tu ritrai – dico propio ritrai – montagne e fai metafore; e io vedo nel procedere di creste bianche come rasoi, là dove la pietra esita, perchè non può, a farsi nuvola – eppure è nuvola, nel suo ultimo sforzo è nuvola – io vedo – voglio crederlo – il procedere dei poeti. Perchè i poeti, Giovanni, di tutte le insufficienze del genere umano, sono l’insufficienza più alta e il loro estenuarsi sui fogli è la sosta in attesa di cielo delle pietre più bianche; ma oggi piove e non ci sono montagne, bene o male, però, tra qualche giorno soffierà la tramontana, allora riappariranno, nitide, in tutta la loro sovranità di smalto e quando le rivedrò, le rivedrò anche perchè – un pò, almeno un pò – tu sei riuscito a ritrarle.

Lorena Gava      

Ca’ Lozzio Incontri – Oderzo,  Ottobre 2017 

Riccardo Giovanni Patriarca da tempo sulla scena friulana e nazionale come raffinato e poliedrico incisore, presenta una serie di pastelli di notevoli dimensioni dedicati al soggetto floreale. Si tratta di vere e proprie gigantografie, visioni macroscopiche decisamente sorprendenti data la particolare ed elaborata stesura cromatica che raggiunge qualità tattili impensabili. Dai papaveri emerge un rosso denso di significati poetici e simbolici, un rosso intenso e magnetico che trasforma la sensazione in sogno, la percezione in fantasia. Il dato naturalistico si presta a ripetuti sconfinamenti, ad orizzonti di senso molteplici e variegati, dove petali e corolle raffigurano, forse, desideri inappagati, bisogni inauditi di leggerezza e di evasione. E’ la magia del colore che illumina l’esistenza e risarcisce della pesantezza delle ombre quotidiane che spesso attanagliano il respiro. Patriarca ci affascina per la delicatezza tonale e per l’acribia del disegno che spiega (nell’accezione di “rivelare”) le abilità dell’incisore attento e preciso che ritroviamo nelle acqueforti e acquetinte, nelle maniere nere e nelle cere molli. Autore di paesaggi potenti talvolta al limite dell’astrazione per la scarnificazione e la riduzione massima dei contorni oggettivi, in questo ciclo rivolto ai fiori ci porta in un vortice di iperrealismo, di verità aptiche, a cui non è esente il ricordo di certa natura morta seicentesca. Sul filo di un passato innervato di contaminazioni contemporanee, si compie, per il nostro artista, quel processo alchemico che dalla pratica calcografica passa al pastello e alla tempera senza perdere di vista le infinite potenzialità dei pigmenti e della luce, del segno e della linea.

Lorena Gava  

Presentazione Inaugurazione Ca’ Lozzio Incontri

Esordisco dicendo “quale” Riccardo Giovanni Patriarca, nel senso che questa è una parte della produzione di Riccardo Giovanni Patriarca poiché in realtà la sua è una creazione artistica poliedrica versatile soprattutto di tecniche ma più ancora di temi e di soggetti trattati. Abbiamo scelto questo i fiori perchè è un tema che è stato meno visto, meno proposto, tra l’altro alcune opere sono proprio ultimissime, appena realizzate. Personalmente quando ho visto tutta la produzione di Riccardo Giovanni, ho preferito questa parte poiché la trovo di una raffinatezza, di una eleganza, di una abilità tecnica veramente straordinaria, a partire dai formati. Non abbiamo messo le didascalie ai quadri perché alcune sue opere sono vergate con la matita, racconta e spiega la tecnica che ha utilizzato, anche tre o quattro lastre matrici per le incisioni delle opere calcografiche arricchite con evoluzione tonale e passaggi timbrici dati dai pastelli. Sono delle gigantografie straordinari di fiori, nucleo di opere veramente splendide soprattutto per questa nota di leggerezza di impalpabilità (guardate che realizzarle a pastello è veramente difficile perchè richiede un’abilità tecnica straordinaria, una tenacia e una sapienza davvero consolidate nel tempo). Questa stessa grazia, questa stessa leggerezza, si ritrovano anche in quel famoso ciclo straordinario dedicato ai cieli, cieli invasi da nubi, nubi con le quali l’artista ha dichiarato di mantenere anche un dialogo, cieli invasi da gabbiani, cieli invasi da nuvole, cieli pervasi da luce. In questo caso il dialogo avviene invece con questi fiori che hanno proprio questa freschezza, questa immediatezza, questa impalpabilità tali da esprimere la straordinaria capacità tecnica di Giovanni. Il soggetto rappresentato è  un pretesto perchè l’opera è sempre autobiografica, è sempre biografica, questa leggerezza nasconde la volontà da parte dell’artista di questa voluta distrazione, questo bisogno di  staccarsi da quelle che sono le ombre, da quello che è il respiro affannoso quotidiano. Giovanni celebra questo distacco con questa evanescenza, con questo legame all’ ICH ET NUNC, a questo momento, a questa preghiera. In questo ovviamente si ricolloca con la grande tradizione della natura morta fiamminga, natura morta lungo i secoli, che è sempre un pò un monito, un pò avvicinarsi a quelli che gli attimi di bellezza della vita che si possono suggellare, racchiudere come in una nuvola, in un battito d’ali ma anche in un petalo sollevato, in una corolla di fiore che però nasconde dentro tutto questo bisogno di appagamento, bisogno di bellezza, questo bisogno di luce e di colore che corrispondono a quello che il grande maestro Dal Sotto diceva “i colori salvano il mondo”. Quindi il colore è proprio questa risposta in questa anima così sensibile e gentile quello che è il mondo attuale.

Raffaella Cargnelutti

Gennaio 2023

Entrare nello studio di Riccardo Giovanni Patriarca è un’esperienza davvero unica.

Mi sono accostata con passi leggeri e il respiro quasi trattenuto per paura di disturbare quella magia, quell’atmosfera alchemica da cui nascono le sue opere; generate anche dal silenzio e dal verde rigoglioso del giardino esterno.

Lastre, torchi, acidi, colori, carte pregiate, pastelli, gessetti circondano e incantano il visitatore. E il loro amalgama, la sapiente fusione finale si imprime e si legge nelle opere concluse. In mezzo ci sta tutta la maestria pluridecennale dell’artista che da sempre si dedica con umiltà e intensità a questa complessa e composita ricerca.

Il ‘viaggio’ nella sua ‘bottega’ continua tra bancali, cassetti, vasche e lui, con gesti sapienti, mostra il passaggio da un’idea, da un’emozione, da un disegno all’iter espressivo che poi si confronta con queste molteplicità tecniche e alla fine trova il giusto lessico nell’esito compositivo definitivo.

Il suo è un codice unico e personale dove l’incisione si colora con la pittura e la pittura si misura con la grafia dell’incisione.

«Mi è sembrato sbagliato che un pittore potesse fare solo il pittore, e così un incisore dovesse fare solo l’incisore» scrive l’artista.

Infatti, sono tante le tecniche che Patriarca ha sperimentato e approfondito; ora, nella maturità del suo linguaggio, le plasma e le impasta secondo il suo sentire con una libertà unica.

Si capisce che quello che interessa all’artista è cogliere quella vibrazione che dalla natura e dal mondo che lo circonda gli deriva e da cui sempre trae ispirazione.

Se poi avviciniamo lo sguardo alla sua variegata produzione artistica, incontriamo volti che ci osservano con un’intensità senza tempo, corpi sinuosi che si abbracciano tra forti contrasti di luci e di ombre, la campagna friulana trasfigurata nel sogno di un’aurora o di un crepuscolo rosato, cieli infiniti dove si stagliano montagne azzurre e nuvole impalpabili sospese nelle immense profondità di una natura primigenia. E poi c’è il mare, con il suo incessante moto ondoso sulla battigia.

In questo multiforme universo espressivo, a sottolineare la valenza anche simbolica della sua indagine, non mancano voli rarefatti di uccelli tesi verso l’infinito, brume nebbiose autunnali che si alzano da panorami lacustri e fluviali, dove le tonalità dell’inquadratura silenziosa e sospesa si imbevano della luce interiore dell’anima.

Lo sguardo infine ci porta verso un ‘altrove’, una dimensione di puro colore e spirito, dove l’artista e noi con lui ci interroghiamo sul significato ultimo del nostro esistere. Opere che sono come una preghiera laica, un raccoglimento interiore che cerca riparo dal frastuono e dal consumismo contemporaneo.

In questa ricerca di verità e bellezza non potevano mancare i fiori, fonte di molteplice ispirazione per Patriarca.

Così nascono le sue preziose composizioni floreali, nature morte di memoria secentesca o dal sapore fiammingo, che hanno spesso fondi scuri. Brune tonalità che, per contrasto, esaltano e danno luminosità ai primi piani multicolori dei fiori recisi, sorretti da brocche e boccali dai riflessi perlati.

Ma ortensie, peonie, calle, papaveri nella loro lussureggiante vitalità cromatica preannunciano già la fine di tanta bellezza per declinare in un ripiegamento melanconico sulla fugacità della vita e del tempo che inesorabilmente scorre.

«Continuerò a pensare per immagini…» scrive Patriarca. E questo gli auguriamo per il futuro, di continuare a regalarci opere che sono pagine di un diario intimo e sincero.

Paolo Maurensig

“ Quella sera mi trovavo in aperta campagna, intento a osservare l’ultimo declinare della luce invernale su campi ormai brulli, quando mi è sembrato di risvegliar mi da un sogno e mi sono reso conto che alle mie spalle, a poche centinaia di metri dal luogo in cui stavo immerso in contemplazione , ferveva tutto un altro mondo, estraneo, cui tuttavia appartenevo: le luci della città, i fari e il rombo delle automobili  che si snodavano lungo una strada. E in quel preciso momento mi sono chiesto quale delle due realtà fosse la mia.”

Questo è il commento dell’artista a un opera su cui la mia attenzione ha indugiato maggiormente.

Ci troviamo nel giardino di casa sua, in un angolo dal vago gusto orientale: tra vasche d’acqua ricoperte di ninfea e fasci svettanti di bambù neri e gialli.

Appoggiandoli con cura sui tronchi d’albero, o sulle pietre dei muretti, attento a trovare la luce favorevole,  passa in rassegna i suoi ultimi acquerelli, le sue incisioni.

Siamo appena usciti dal suo studio, dove mi ha mostrato tutta la sua produzione passata.

Pur conoscendolo da tempo e pur apprezzando  i suoi lavori più recenti, mai mi sarei aspettato che avesse attraversato con uguale passione altre esperienze pittoriche, quali la  pittura ad  olio ( stupendi i suoi nudi di grandi dimensioni, in gran parte ormai  relegati in soffitta ) o la difficile tecnica dell’incisione alla “ manieranera “ o mezzotinto. Eppure , non si è mai sentito appagato dai suoi notevoli risultati. Ora sembra attraversare un periodo in cui la sua arte, trascendendo la necessità formale, voglia affacciarsi piuttosto a un contenuto cosmico-spirituale. Affascinato un tempo dalle forme che la luce rileva da un corpo umano, sembra ormai abbagliato dalla luce stessa:  dai tramonti, dal lucore delle stelle, dalle nubi incandescenti che si addensano all’orizzonte. “ Le vedo arrivare da laggiù “ mi dice, “ e tento in qualche modo di fissarne le evoluzioni sulla carta “. Mi parla della sua pittura, quasi a voler giustificare alcune scelte. Sente di non appartenere alcun gruppo, ma a questa sua condizione egregia non ha ancora fatto l’abitudine, dibattuto com’è tra ciò che sente di voler dipingere, e una malcelata voglia di apprezzamento, non intendendo però quest’ultimo come soddisfazione personale, ma piuttosto come necessità di un segnale che gli indichi la strada, o una precisa conferma che la direzione presa sia la giusta. In uno dei suoi ultimi lavori, Riccardo Giovanni Patriarca ha creduto di ravvisare in una macchia chiara, apparsa a sua insaputa in mezzo ai due cipressi di un suggestivo paesaggio campestre, la figura di un angelo, il quale, a mio parere, sembra volergli rammentare che non esiste indicazione più sicura di quella interiore, e che il compito di un artista non consiste nel seguire vie già tracciate, bensì nel ricercarne altre, e poco importa se saranno sentieri impervi, riconoscibili a malapena da una traccia di rosso su un sasso, o sul tronco muschiato di un albero.

Udine ,   10 . 10 . 2000